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Corte Costituzionale, 6/5/2024 n. 77
Sono cost. illeg. i commi 1 e 2 art. 36 l. n. 449/1997, tesi a fornire l'interpret. autentica del c. 12 art. 8 l. n. 537/1993 (che ha introdotto un regime di sorveglienza dei prezzi dei medicinali) e volti a incidere su giudizi di cui era parte la PA




Materia: servizio farmaceutico / disciplina

SENTENZA N. 77

 

ANNO 2024

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), promosso dal Consiglio di Stato, sezione quarta, nel procedimento vertente tra Fabbrica italiana ritrovati medicinali ed affini (FIRMA) spa e la Presidenza del Consiglio dei ministri e altri, con ordinanza del 13 marzo 2023 iscritta al n. 51 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti l’atto di costituzione di FIRMA spa e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 marzo 2024 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi;

uditi gli avvocati Stefano Grassi e Andrea Grazzini per FIRMA spa nonché l’avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024.

 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 marzo 2023, il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) in riferimento agli artt. 3, 24, 111, 113 e 117, primo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, della Costituzione.

 

2.– Il giudice a quo espone che l’appellante aveva proposto domanda di risarcimento del danno, innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE), del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero della salute. La società aveva dedotto la responsabilità delle amministrazioni convenute, affermando: che la loro condotta illecita era consistita nella violazione dell’art. 8, comma 12, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), come definitivamente accertata dal Consiglio di Stato, sezione sesta, con sentenza 27 gennaio 1997, n. 118; che tale condotta era supportata da colpa; che dalla stessa le era derivato un pregiudizio economico, rappresentato dalla perdita di fatturato netto conseguente alla forzata riduzione del prezzo delle proprie specialità medicinali; che alla fattispecie non poteva essere applicato l’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge n. 449 del 1997, in quanto costituzionalmente illegittimo e in contrasto con l’art. 28 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea.

 

2.1.– Investito dell’appello avverso la sentenza del TAR Lazio reiettiva della domanda di risarcimento della società, il giudice rimettente espone che l’art. 36, comma 1, della legge n. 449 del 1997 detta un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993 – che ha stabilito la regola del cosiddetto prezzo comune europeo dei farmaci, rimettendone al CIPE la concreta determinazione – corrispondente al contenuto delle disposizioni di cui alla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 (Individuazione dei criteri per la determinazione del prezzo medio europeo di acquisto delle specialità medicinali), annullata dal Consiglio di Stato, con la citata sentenza n. 118 del 1997, proprio nella parte in cui, discostandosi dalle prescrizioni della norma sovraordinata, aveva selezionato solo alcuni Paesi per calcolare la media europea e aveva adottato tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete. Rileva, inoltre, che il comma 2 del censurato art. 36 conferma l’efficacia di tali criteri di determinazione per il periodo compreso fra il 1° settembre 1994 e la data di entrata in vigore della legge, con efficacia di sanatoria; mentre il comma 3 stabilisce, a regime, i nuovi criteri di determinazione del prezzo medio, coerenti con le indicazioni contenute nella predetta sentenza del Consiglio di Stato e, prima ancora, con il testo originario (non interpretato) del citato art. 8, stabilendo che «[a] decorrere dal 1° luglio 1998, ai fini del calcolo del prezzo medio dei medicinali, si applicano i tassi di cambio ufficiali relativi a tutti i Paesi dell’Unione europea in vigore nel primo giorno non festivo del quadrimestre precedente quello in cui si opera il calcolo».

Tanto premesso, il Consiglio di Stato, in punto di rilevanza, osserva che, in forza della dichiarata natura interpretativa, e perciò della retroattività, delle menzionate disposizioni, l’appello in esame dovrebbe essere respinto, in quanto, come già ritenuto dai giudici di primo grado, la domanda risarcitoria si giustifica in presenza di un danno ingiusto riconducibile causalmente all’adozione di un atto illegittimo, mentre l’intervenuta sanatoria disposta dal legislatore del 1997 farebbe venir meno l’illegittimità della delibera CIPE del 25 febbraio 1994, annullata dal Consiglio di Stato, con la predetta sentenza n. 118 del 1997, avendo essa, di fatto, legificato il precedente provvedimento amministrativo, che risulta, di conseguenza, legittimo ab initio. Viceversa, un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate comporterebbe la piena sussistenza dell’elemento oggettivo della domanda risarcitoria in relazione all’illegittimo esercizio di una funzione pubblica, con la conseguente possibilità di procedere nello scrutinio della domanda accertandone i restanti elementi (accertamento reputato succedaneo al riscontro del carattere illegittimo dell’azione amministrativa illegittima). Da ciò deriverebbe, dunque, la rilevanza della questione.

In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo esclude anzitutto, con richiamo alla costante giurisprudenza costituzionale, che le disposizioni richiamate possano essere qualificate come norme di interpretazione autentica. Esse, infatti, sarebbero state adottate in un momento nel quale non esisteva alcun contrasto giurisprudenziale, bensì la sola pronunzia del Consiglio di Stato che aveva annullato la deliberazione del CIPE; né la scelta imposta dalla legge interpretativa sarebbe in qualche modo ricavabile dalla norma sovraordinata, rispetto alla quale la deliberazione del CIPE presentava un contenuto di assoluto contrasto.

Ciò posto, qualificate le disposizioni come meramente retroattive, il Consiglio di Stato, richiamando i lavori parlamentari, osserva, in particolare, che l’unica finalità perseguita dalle disposizioni censurate sarebbe stata quella di chiudere il contenzioso pendente in materia di prezzo dei farmaci e determinare con maggiore esattezza gli oneri per la spesa farmaceutica, in termini che evidenzierebbero la volontà di anteporre esigenze di carattere finanziario al diritto della parte privata ad un processo equo.

Il giudice rimettente sostiene, dunque, un primo profilo di illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni nella loro intrinseca irragionevolezza, dovuta al fatto che le stesse non risulterebbero supportate da «motivi imperativi di interesse generale» – non potendo questi consistere nella mera volontà di evitare la soccombenza in giudizio dell’amministrazione (come, del resto, indicato negli stessi lavori parlamentari) – e non sarebbero supportate da ragioni diverse da quelle di dare copertura legislativa alla regolamentazione CIPE annullata dal Consiglio di Stato, come confermato dal fatto che, per il futuro, la stessa norma fa riferimento a criteri determinativi tutt’affatto diversi, riproducendo una regola sostanzialmente analoga a quella originaria (violata dal CIPE), in quanto evidentemente ritenuta espressione di un equo e ragionevole contemperamento degli interessi in gioco.

Ulteriore profilo di illegittimità costituzionale deriverebbe, poi, dal contrasto con gli artt. 24, 111, 113 e 117, primo comma, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, Cost., essendo le censurate disposizioni intervenute con efficacia retroattiva in pendenza di un giudizio nel quale lo Stato era parte, in modo tale da influenzarne l’esito.

 

3.– In data 16 maggio 2023, si è costituita la società ricorrente nel giudizio principale formulando conclusioni coincidenti con le richieste del rimettente.

In particolare, premessa la natura meramente retroattiva delle disposizioni censurate, ha sostenuto, anche alla luce dei relativi lavori parlamentari, che esse sarebbero esclusivamente volte a spiegare effetto sul contenzioso in essere con lo Stato.

 

4.– Con atto depositato il 16 maggio 2023, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

In via principale, la difesa erariale ha eccepito l’inammissibilità della questione, essendo, la valutazione sulla rilevanza, operata dal rimettente, limitata al profilo dell’illiceità della condotta della pubblica amministrazione. Ha, quindi, lamentato l’omessa considerazione dei restanti elementi costitutivi della responsabilità dedotta – reputati «succedanei» rispetto all’elemento esaminato – e, in particolare, dell’elemento soggettivo, nonostante i giudici di primo grado avessero ritenuto insussistente la colpa dell’amministrazione in ragione dell’obiettiva difficoltà interpretativa della fattispecie (difficoltà, del resto, confermata dalla circostanza che lo stesso Consiglio di Stato aveva rigettato l’appello nel corso della fase cautelare).

Il Presidente del Consiglio ha dedotto la non fondatezza delle doglianze, sostenendo che le disposizioni censurate, lungi dal costituire il vulnus evidenziato dal rimettente, avrebbero attribuito valore di legge a una norma di rango inferiore al fine di porre rimedio a imperfezioni tecniche dell’originario testo legislativo. Le stesse, inoltre, erano intervenute – peraltro a distanza di tempo non considerevole dalla norma oggetto di interpretazione, inidoneo a consolidare un elevato grado di affidamento nella diversa interpretazione – a tutela di interessi di rango costituzionale, legati alla specificità del comparto salute e farmaceutico, caratterizzato dalla limitatezza delle risorse finanziarie disponibili per la cura dei pazienti, oltre che dalla necessità di garantire il livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da erogare su tutto il territorio nazionale e la trasparenza dei mercati.

 

5.– In data 13 febbraio 2024, la società ricorrente del giudizio a quo ha depositato memoria, ribadendo le proprie argomentazioni.

In particolare, in risposta all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura dello Stato in ordine alla mancata preliminare valutazione della sussistenza dell’elemento psicologico da parte del giudice rimettente, ha affermato la rilevanza della questione sollevata, sostenendo che, se pure l’esito del giudizio a quo potrebbe essere il medesimo (per l’assenza degli ulteriori presupposti della responsabilità aquiliana), l’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale sarebbe comunque idonea a influire sul percorso argomentativo della decisione di rigetto della domanda di risarcimento.

Nel merito, ha insistito sulla fondatezza della questione sollevata, ribadendo la natura non interpretativa delle disposizioni censurate e l’inidoneità ad assurgere a «motivi imperativi di interesse generale» delle esigenze, genericamente evocate dalla difesa statale.

 

Considerato in diritto

1.– Il Consiglio di Stato, sezione quarta, nell’ambito di un giudizio risarcitorio da provvedimento illegittimo, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1, 2 e 3, della legge n. 449 del 1997, in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto, con la dichiarata finalità di fornire un’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, attribuirebbe effetto retroattivo ad una deliberazione del CIPE annullata in sede giurisdizionale, al solo effetto di sterilizzare gli effetti della sentenza definitiva di annullamento, peraltro adottando parametri di regolazione dei prezzi dei farmaci del tutto difformi da quelli disposti per il futuro, evidenziando così la propria intrinseca irragionevolezza. Viene, inoltre, ravvisato il contrasto con gli artt. 24, 111, 113, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, in quanto, intervenendo in pendenza di un giudizio in cui lo Stato è parte, in modo da influenzarne l’esito, le disposizioni censurate comporterebbero un’ingerenza nella garanzia del diritto a un processo equo e violerebbero «un principio dello stato di diritto garantito dall’art. 6 della Convenzione».

 

2.– Occorre prendere preliminarmente in esame l’eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza formulata dall’Avvocatura generale dello Stato.

Assume la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri che il giudice a quo, anziché soffermarsi unicamente sull’elemento oggettivo dell’illecito, avrebbe dovuto esaminare, ai fini della rilevanza, la sussistenza di tutti gli altri elementi costitutivi della responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione.

La tesi non può essere condivisa.

Il Consiglio di Stato argomenta, in punto di rilevanza, che, qualora le censurate disposizioni fossero dichiarate costituzionalmente illegittime, risulterebbe sussistente l’elemento oggettivo della domanda risarcitoria avanzata dalla società appellante per il venir meno dell’effetto sanante del censurato art. 36 sulla deliberazione del CIPE annullata in sede giurisdizionale.

Quanto alla necessaria verifica degli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito, il giudice a quo chiarisce espressamente che l’accertamento della loro sussistenza è «logicamente succedane[o] al riscontro di un’azione amministrativa illegittima, che è allo stato esclusa dalle disposizioni sospette di incostituzionalità». Il Consiglio di Stato ritiene, infatti, che (solo) «qualora tali disposizioni fossero dichiarate incostituzionali, rimarrebbe accertata la sussistenza dell’elemento oggettivo della domanda risarcitoria, in relazione all’illegittimo esercizio di una funzione pubblica, con la conseguente necessità di procedere all’accertamento degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie, rappresentati dall’effettività e ingiustizia del danno, dall’esistenza del nesso di causalità, nonché dall’imputabilità del danno alla Pubblica Amministrazione sulla base del requisito soggettivo del dolo o della colpa (ex plurimis, Cassazione civile sez. III, 6 dicembre 2018, n. 31567)».

Il giudice rimettente dunque, con una motivazione non implausibile, ha ritenuto prioritario l’esame dell’elemento oggettivo della illegittimità dell’azione della pubblica amministrazione, in considerazione della ritenuta «succedaneità logica» rispetto a quest’ultimo dell’accertamento degli altri elementi. Tale argomentazione deve reputarsi sufficiente alla luce del costante orientamento giurisprudenziale secondo cui questa Corte è chiamata a operare una verifica meramente esterna e strumentale al riscontro di una adeguata motivazione in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale (così, sentenza n. 4 del 2024; in termini analoghi, sentenze n. 193 e n. 150 del 2022, n. 240 del 2021, n. 224 e n. 168 del 2020).

In definitiva, il giudice a quo ritiene, non implausibilmente, di dover fare applicazione della disposizione censurata nel giudizio dinanzi a lui e dall’accoglimento o meno della questione sollevata discende, sulla decisione da rendere nello stesso, un effetto diretto e immediato quanto meno sotto il profilo del percorso argomentativo (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 25 del 2024 e n. 19 del 2022).

L’eccezione, dunque, non è fondata.

3.– Per meglio affrontare le questioni nel merito, è opportuno ricostruire, per quanto qui di interesse, la genesi della disposizione sottoposta a scrutinio.

 

4.– L’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993, poi asseritamente interpretata dalla disposizione censurata, prevede che «[a] decorrere dal 1o gennaio 1994, i prezzi delle specialità medicinali, esclusi i medicinali da banco, sono sottoposti a regime di sorveglianza secondo le modalità indicate dal CIPE e non possono superare la media dei prezzi risultanti per prodotti similari e inerenti al medesimo principio nell’ambito della Comunità europea; se inferiori, l’adeguamento alla media comunitaria non potrà avvenire in misura superiore al 20 per cento annuo della differenza. Sono abrogate le disposizioni che attribuiscono al CIP competenze in materia di fissazione e revisione del prezzo delle specialità medicinali».

Con tale disposizione veniva introdotto – in sostituzione del previgente regime dei prezzi amministrati dei medicinali – il cosiddetto regime di sorveglianza, che assumeva come parametro di riferimento il concetto del «prezzo medio europeo». Da un regime in cui l’autorità statale determinava in maniera unilaterale il prezzo delle specialità medicinali si passava, cioè, a un sistema che prevedeva un intervento da parte dell’autorità preposta solo in caso di superamento della cosiddetta «media europea». Le relative competenze in materia venivano attribuite al CIPE.

In attuazione della nuova normativa, il CIPE adottava due delibere – datate 25 febbraio e 16 marzo 1994 – tese a regolare, rispettivamente, i criteri per il calcolo del prezzo medio europeo dei farmaci e la competenza per la sorveglianza del prezzo dei medicinali.

In particolare, con la deliberazione del 25 febbraio 1994 era disposto che: a) il prezzo dei medicinali venisse ridotto autoritativamente ove avesse superato di almeno il 5 per cento la media del prezzo europeo; b) tale prezzo venisse determinato prendendo a riferimento i prezzi praticati da Francia, Inghilterra, Germania e Spagna; c) la media fosse calcolata utilizzando i tassi di conversione basati sulla parità del potere di acquisto delle varie monete, come determinati annualmente dallo stesso CIPE.

Tale deliberazione veniva successivamente annullata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 118 del 1997, per quanto qui di interesse, nel punto 3, primo e terzo periodo, ovverosia, nella parte in cui prevedeva la scelta di quattro Paesi europei con cui effettuare il confronto e l’applicazione dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parità dei poteri d’acquisto, come determinati dallo stesso CIPE (oltre che nel punto 2, secondo periodo). Veniva, infatti, ritenuto illegittimo il criterio di determinazione del prezzo sulla base dei prezzi praticati in soli quattro Paesi e con riferimento a un tasso di conversione diverso dal tasso di cambio ufficiale. La sentenza di annullamento diveniva definitiva il 24 marzo 1999, a seguito della declaratoria di estinzione, da parte delle sezioni unite della Corte di cassazione, del giudizio introdotto dall’Avvocatura generale dello Stato ai sensi dell’art. 111 Cost.

Con l’art. 36 della legge n. 449 del 1997 veniva, dunque, introdotta una nuova disciplina del prezzo dei medicinali, che prendeva in considerazione, ai fini del calcolo del prezzo medio degli stessi, i prezzi praticati in tutti i Paesi dell’Unione europea, con applicazione dei tassi di cambio ufficiali, disponendo che, sulla base di quanto dallo stesso previsto, il CIPE, entro 60 giorni, provvedesse con propria deliberazione alla definizione di nuovi criteri per il calcolo del prezzo medio europeo.

Con i primi due commi del medesimo articolo veniva, inoltre, disciplinato in via transitoria – nelle more dell’adozione della nuova deliberazione da parte del CIPE – il regime dei prezzi dei medicinali, disponendo una sanatoria della precedente disciplina tramite la previsione che «[d]alla data del 1° settembre 1994 fino all’entrata in vigore del metodo di calcolo del prezzo medio europeo come previsto dai commi 3 e 4, restano validi i prezzi applicati secondo i criteri indicati per la determinazione del prezzo medio europeo dalle deliberazioni del CIPE 25 febbraio 1994, 16 marzo 1994, 13 aprile 1994, 3 agosto 1994 e 22 novembre 1994» (comma 2) e offrendo un’interpretazione autentica del comma 12 dell’art. 8 della legge 537 del 1993, il quale «deve essere intes[o] nel senso che è rimesso al CIPE stabilire anche quali e quanti Paesi della Comunità prendere a riferimento per il confronto, con applicazione dei tassi di conversione fra le valute, basati sulla parità dei poteri d’acquisto, come determinati dallo stesso CIPE» (comma 1).

In attuazione del predetto art. 36, il CIPE, con propria deliberazione del 26 febbraio 1998, ampliava i Paesi di riferimento per il calcolo (da 4 a 12 rispetto al previgente sistema, corrispondenti ai Paesi europei i cui dati su prezzi e consumi dei prodotti medicinali risultavano disponibili) e adottava i tassi di cambio ufficiali.

 

5.– Ciò premesso, va osservato che, sebbene nella prospettazione del Consiglio di Stato oggetto delle questioni di legittimità costituzionale siano i primi tre commi dell’art. 36 della legge n. 449 del 1997, le censure riguardano invero unicamente i primi due, aventi ad oggetto l’interpretazione autentica dell’art. 8, comma 12, della legge n. 537 del 1993 e la “sanatoria” («restano validi») dei prezzi fissati in applicazione dei criteri indicati per la determinazione del prezzo medio europeo dalla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 (e seguenti).

Il terzo comma, che unitamente ai successivi disciplina pro futuro le modalità di determinazione del prezzo medio europeo, è, invece, estraneo alle doglianze del giudice rimettente, il quale lo evoca al solo fine di rimarcare l’illegittimità e l’irrazionalità delle scelte operate dalla deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994 – calcolo del prezzo medio europeo tramite confronto con soli quattro Paesi di riferimento e utilizzo dei tassi di conversione tra le valute dei Paesi scelti e la lira basati sulla parità dei poteri di acquisto – rispetto a quella adottata per il futuro, basata sul calcolo del prezzo medio europeo con riferimento a tutti i Paesi europei e sull’utilizzo dei tassi di cambio ufficiale.

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate devono ritenersi dunque aver ad oggetto i soli primi due commi.

 

6.– Nel merito, le questioni sono fondate con riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, con assorbimento delle ulteriori censure.

 

6.1.- Va preliminarmente rammentato, su un piano più generale, che – al di là della autoqualificazione, di per sé non vincolante, e dell’accertamento di un contrasto giurisprudenziale formatosi sulla disposizione oggetto dell’interpretazione autentica, anch’esso non dirimente (tra le tante, sentenze n. 4 del 2024, n. 104 e n. 61 del 2022, n. 133 del 2020) – la natura interpretativa va riconosciuta solo a quelle disposizioni «che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo» (così la sentenza n. 73 del 2017, richiamata dalla sentenza n. 70 del 2020).

Ciò premesso, questa Corte ha più volte affermato «la “sostanziale indifferenza, quanto allo scrutinio di legittimità costituzionale, della distinzione tra norme di interpretazione autentica – retroattive, salva una diversa volontà in tal senso esplicitata dal legislatore stesso – e norme innovative con efficacia retroattiva” (sentenza n. 73 del 2017; nonché, da ultimo, sentenza n. 108 del 2019)» (sentenza n. 70 del 2020); arrivando a ritenerne «la possibile assimilazione, quanto agli esiti dello scrutinio di legittimità costituzionale» (sentenza n. 108 del 2019).

A tal fine, la detta distinzione rileva, al più, perché «“la palese erroneità di tale auto-qualificazione può costituire un indice, sia pure non dirimente, della irragionevolezza della disposizione impugnata” (sentenza n. 73 del 2017; ex plurimis, anche sentenze n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011)» (sentenza n. 70 del 2020).

 

6.2.- Nello scrutinio di legittimità costituzionale, questa Corte ha più volte ricordato la centralità che assume il principio di non retroattività della legge, inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica (tra le più recenti, sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 73 del 2017).

Ne consegue che, di fronte a una norma avente comunque efficacia retroattiva – che pure deve considerarsi, al di fuori della materia penale, frutto del legittimo esercizio discrezionale del potere del legislatore –, è necessario procedere ad uno scrutinio particolarmente rigoroso.

Tale scrutinio diviene ancor più stringente se l’intervento legislativo retroattivo incide su giudizi ancora in corso, tanto più se in essi sia coinvolta un’amministrazione pubblica. Infatti, «tanto i principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, quanto i principi concernenti l’effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio (tra le altre, sentenze n. 201 e n. 46 del 2021, n. 12 del 2018 e n. 191 del 2014)» (sentenza n. 4 del 2024).

Relativamente al sindacato di costituzionalità delle leggi retroattive incidenti su giudizi in corso, ancora di recente è stato rammentato il rilievo assunto dalla giurisprudenza della Corte EDU, affermandosi che in tale ambito si è ormai pervenuti alla costruzione di una «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU», che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali «al fine di massimizzarne l’espansione in un “rapporto di integrazione reciproca”» (sentenza n. 145 del 2022, richiamata dalla sentenza n. 4 del 2024).

 

6.3.– Tanto premesso, per svolgere tale rigoroso controllo sono stati individuati una serie di elementi sintomatici dell’uso distorto della funzione legislativa.

Tra questi, in particolare, per quanto qui di interesse, emergono l’errata e artificiosa auto qualificazione della norma come norma di interpretazione autentica e, soprattutto, la chiara finalità di incidere sull’esito di giudizi pendenti. Finalità, quest’ultima, che si può evincere da metodo e tempistica dell’intervento del legislatore (sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) – per esempio, la distanza dell’intervento legislativo rispetto all’entrata in vigore delle disposizioni oggetto di interpretazione autentica (sentenze n. 4 del 2024 e n. 174 del 2019) – e si può ricavare dai lavori preparatori (sentenze n. 4 del 2024 e n. 145 del 2022).

Infine, in quest’opera di rigoroso scrutinio è necessario valutare se l’intervento legislativo trovi una possibile ragionevole giustificazione «nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni costituzionali». Anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, «solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso; i princìpi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni “siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile” (sentenza 14 febbraio 2012, Arras contro Italia, paragrafo 48)» (sentenza n. 4 del 2024).

Come da ultimo ricordato da questa Corte nella più volte citata sentenza n. 4 del 2024, la Corte EDU ha perimetrato in maniera rigorosa e restrittiva tale nozione di «imperative ragioni di interesse generale», ravvisando la compatibilità con l’art. 6 CEDU di «alcuni interventi legislativi retroattivi incidenti su giudizi in corso, là dove “i soggetti ricorrenti avevano tentato di approfittare dei difetti tecnici della legislazione (sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito, paragrafo 112), o avevano cercato di ottenere vantaggi da una lacuna della legislazione medesima, cui l’ingerenza del legislatore mirava a porre rimedio (sentenza del 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X, Blanche de Castille e altri contro Francia, paragrafo 69)” (sentenza n. 145 del 2022)», o, ancora, quando «l’intervento legislativo retroattivo mirava a risolvere una serie più ampia di conflitti conseguenti alla riunificazione tedesca, al fine di “assicurare in modo duraturo la pace e la sicurezza giuridica in Germania” (20 febbraio 2003, ForrerNiedenthal c. Germania, paragrafo 64)».

Più in generale, in tale opera di perimetrazione, al di fuori della nozione di «imperative ragioni di interesse generale» sono i soli motivi di carattere meramente finanziario, volti a contenere la spesa pubblica, come chiarito tanto dalla Corte EDU (sentenza 29 marzo 2006, Scordino e altri contro Italia, paragrafo 132; sentenza 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia, paragrafo 37), quanto da questa stessa Corte, la quale ha espressamente affermato che «[i] soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, e n. 170 del 2013)» (sentenza n. 145 del 2022).

 

7.– In applicazione delle coordinate giurisprudenziali sin qui sinteticamente ripercorse, le disposizioni oggetto delle questioni sollevate non resistono allo scrutinio di costituzionalità.

Esse, infatti, sono evidentemente finalizzate a incidere su giudizi di cui è parte la pubblica amministrazione; giudizi dei quali si vuole vanificare o comunque condizionare l’esito, anche con riferimento ai collegati profili risarcitori.

 

7.1.– Tale finalità emerge, innanzitutto, dai lavori preparatori, dai quali non si possono evincere ragioni giustificatrici dell’intervento legislativo retroattivo diverse dall’esigenza di superare le ragioni di illegittimità accolte dal Consiglio di Stato che ha annullato la deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994, nelle parti che riguardano l’individuazione parziale dei Paesi europei con i quali operare il confronto e la scelta, invece del tasso ufficiale, dei tassi di conversione tra valute basati sulla parità del potere di acquisto. L’intento dichiarato era quello, in definitiva, di “sterilizzare” gli effetti della predetta sentenza n. 118 del 1997 del Consiglio di Stato (più volte richiamata nei lavori preparatori), la quale, annullando la deliberazione del CIPE, aveva riconosciuto l’illegittimità dell’azione amministrativa, ponendo così le basi per future azioni di risarcimento nei suoi confronti, quale, appunto, quella posta alla base del giudizio a quo (come espressamente affermato, in particolare, nel dossier del Servizio studi della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica).

 

7.2.– L’uso improprio della funzione legislativa, tale perché esercitata allo scopo di influire sul contenzioso in corso, vanificandone, nelle intenzioni, gli effetti, è confermato da due ulteriori circostanze, l’una attinente alla complessiva vicenda processuale, l’altra concernente la stessa portata normativa dell’intervento.

 

7.2.1.– Sul piano processuale, va rimarcato che la legge n. 449 del 1997 (del 27 dicembre) è intervenuta a ben quattro anni di distanza dalla disposizione oggetto della presunta interpretazione, ossia l’art. 8 della legge n. 537 del 24 dicembre 1993, quando era già in corso un nutrito contenzioso, alimentato da trentanove aziende farmaceutiche, che aveva dato luogo, con la citata sentenza n. 118 del 1997 (depositata il 27 gennaio 1997), all’annullamento della deliberazione CIPE del 25 febbraio 1994, proprio nella parte in cui, come già detto, prevedeva la scelta limitata a quattro Paesi europei con cui effettuare il confronto dei prezzi e adottava i tassi di conversione fra le valute basati sulla parità dei poteri d’acquisto.

La sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. dall’Avvocatura generale dello Stato, impedendosi così il passaggio in giudicato. Nelle more della decisione del ricorso, sono intervenute le disposizioni censurate, che, per un verso, hanno fornito un’interpretazione asseritamente autentica di quelle applicate dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 118 del 1997, interpretazione in contrasto con quella offerta da tale pronuncia; per un altro, hanno proceduto contestualmente alla sostanziale sanatoria della deliberazione del CIPE, a distanza di poco meno di un anno dal suo annullamento dal Consiglio di Stato.

L’amministrazione statale, a seguito dell’intervento normativo contestato, ha rinunciato al ricorso ex art. 111 Cost., la cui proposizione aveva impedito nelle more l’immediata formazione del giudicato sulla sentenza del Consiglio di Stato posta dalla parte privata a fondamento (sul piano oggettivo) della pretesa risarcitoria nel giudizio a quo.

«Metodo» e «tempistica» seguiti dal legislatore nella vicenda in esame – rilevanti, come sopra ricordato, ai fini del presente scrutinio (sentenze n. 4 del 2024, n. 145 del 2022, n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018) – confermano, quindi, quanto risulta dai lavori preparatori.

 

7.2.2.- Sul piano sostanziale, poi, è significativo che, nello stabilire la disciplina a regime della determinazione dei prezzi medi dei farmaci (art. 36, comma 3), la legge n. 449 del 1997 delinei un sistema esattamente conforme a quanto deciso con la sentenza n. 118 del 1997, per cui l’asserita interpretazione autentica (commi 1 e 2) riguarda proprio la proposizione normativa oggetto del contenzioso giudiziario e si rivela, ancora una volta, finalizzata a vanificare gli effetti della più volte citata sentenza del Consiglio di Stato a giudicato non ancora formatosi, risolvendosi nell’assunzione a livello legislativo di quanto sostenuto in giudizio dall’amministrazione pubblica e smentito dal giudice nella sua decisione.

Nel caso in esame, quindi, pare evidente, tanto sul piano oggettivo quanto su quello soggettivo, la volontà del legislatore di interferire su vicende processuali in corso al fine (o con il risultato) di alterarne l’esito, palesandosi pertanto un uso improprio della funzione legislativa.

 

8.– In conclusione, l’art. 36, commi 1 e 2, della legge n. 449 del 1997, avendo introdotto una norma ad efficacia retroattiva, al fine specifico di incidere su giudizi di cui era parte la stessa amministrazione pubblica, e in assenza di ragioni imperative di interesse generale, ha violato i princìpi del giusto processo e della parità delle parti in giudizio, sanciti dagli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., e per mezzo di quest’ultimo dall’art. 6 CEDU, nonché il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.

Restano assorbite le ulteriori questioni sollevate in riferimento agli artt. 24 e 113 Cost.

 

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 36, commi 1 e 2, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore

Valeria EMMA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria

il 6 maggio 2024

 

Il Cancelliere

F.to: Valeria EMMA

 

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