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Consiglio di Stato, Sez. IV, 16/11/2020 n. 7052
Il divieto dei nova in appello ex art. 104 cpa assume tratti peculiari in sede di app. nel giud. di ottemperanza, quando sia in contestazione fra le parti l'esistenza o meno di margini di valutazione in capo alla pa in fase di attuaz. del giudicato

Sull'iter procedimentale per la realizzazione di impianti energetici da fonti rinnovabili

Per costante giurisprudenza, il divieto dei nova in appello, posto dall'art. 104 c.p.a., è riferito al solo ricorrente in primo grado, e non alle altre parti del processo, le quali potrebbero anche non essersi costituite nel grado precedente, e in sede di appello possono, in linea di principio, far valere qualunque motivo ritengano utile a criticare le conclusioni loro sfavorevoli cui sia giunta la sentenza impugnata. Il predetto divieto assume comunque tratti peculiari in sede di appello nel giudizio di ottemperanza, quando sia in contestazione fra le parti l'esistenza o meno di margini di valutazione in capo all'Amministrazione in fase di attuazione del giudicato. In tale ipotesi, l'allegazione di nuove ragioni ostative non coperte dalla decisione cognitoria giudicato non può considerarsi alla stregua di una nuova eccezione in senso proprio, costituendo piuttosto - anche alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione una semplice argomentazione difensiva a sostegno della tesi dell'Amministrazione medesima, che pertanto può essere anche supportata da nuova documentazione specie quando, come nella vicenda in questione, la tesi dell'Amministrazione appellante si fondi su asserite sopravvenienze successive al giudicato.

Nell'ambito del procedimento inteso al rilascio dell'autorizzazione unica alla realizzazione di impianti energetici da fonti rinnovabili, ex art. 12, d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387, la determinazione conclusiva della conferenza di servizi ha valore di atto istruttorio endoprocedimentale a contenuto consultivo, ben distinto dal provvedimento di autorizzazione unica che deve essere poi rilasciato dalla Regione; ne discende che, ove mai fra il momento della conclusione della conferenza e quello in cui deve essere rilasciata l'autorizzazione unica intervengano sopravvenienze fattuali o normative, di queste l'Amministrazione deve tenere conto ai fini del decidere, in virtù del principio tempus regit actum.


Materia: energia / disciplina
Pubblicato il 16/11/2020

N. 07052/2020REG.PROV.COLL.

N. 10100/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10100 del 2019, proposto dalla Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Tiziana Teresa Colelli, elettivamente domiciliata presso la Delegazione regionale in Roma, via Barberini, 36, e con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia,

contro

Globalbio S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Andrea Sticchi Damiani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, piazza San Lorenzo in Lucina, 26,

nei confronti

del Comune di Manduria, del Ministero per i beni e le attività culturali, della Soprintendenza beni ambientali, architettonici e paesaggio per le Province di Brindisi, Lecce e Taranto, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio,

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, sezione II, 30 ottobre 2019, n. 1654.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Globalbio S.r.l.;

Visti tutti gli atti della causa;

Viste le note di udienza in data 26 ottobre 2020, con le quali le parti hanno chiesto il passaggio della causa in decisione senza discussione;

Relatore, nella camera di consiglio del giorno 29 ottobre 2020, il consigliere Giuseppe Castiglia;

Dato atto che per le parti nessuno è comparso;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso n.r.g. n. 618/2012 la società Manduria Helios 2 S.r.l. ha impugnato la nota prot. n. 2073 in data 1° aprile 2012, con cui la Regione Puglia ha confermato la conclusione negativa del procedimento volto al rilascio di autorizzazione unica per la costruzione ed esercizio di un impianto, delle opere connesse, nonché delle infrastrutture indispensabili per la produzione di energia elettrica da fonte solare rinnovabile della potenza di 7,500 MW, da realizzarsi a cura della società ricorrente nel Comune di Manduria.

Con sentenza 13 maggio 2013, n. 1045, il T.A.R. per la Puglia, sez. staccata di Lecce, sez. I, ha accolto il ricorso nella parte impugnatoria, annullando l’atto gravato (illegittimo in quanto fondato sull’applicazione di una norma - l’art. 4 del regolamento regionale n. 24/2010 - successiva alla positiva conclusione del procedimento e comunque già annullata dal medesimo Tribunale con sentenza n. 2156/20111), respinto la domanda risarcitoria, compensato fra le parti le spese di lite.

La sola società ha impugnato la sentenza n. 1045/2013 nella parte in cui ha respinto la domanda risarcitoria e compensato le spese di giudizio. In mancanza di appello incidentale, la sentenza è passata in giudicato per il resto.

In parziale accoglimento dell’appello, con sentenza 3 dicembre 2018, n. 6833, la V Sezione del Consiglio di Stato ha condannato la Regione al risarcimento del danno in favore della società, determinato in euro 34.240,60 oltre interessi e rivalutazione monetaria, nonché al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

Quest’ultima sentenza è stata impugnata per revocazione con un ricorso che la medesima V Sezione ha dichiarato inammissibile con sentenza 15 gennaio 2020, n. 376, condannando la Regione al pagamento delle spese di lite.

2. Nel frattempo, con successive diffide a partire dal 30 giugno 2017, l’originaria ricorrente - che successivamente aveva assunto la denominazione sociale “Total Bio S.r.l.”, e poi “Globalbio S.r.l.” - ha invitato la Regione al rilascio della citata autorizzazione unica, nonché al pagamento delle somme riconosciute dal Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 6833/18.

Non avendo la Regione dato esecuzione alle sentenze richiamate, la società ricorrente ha proposto ricorso per l’ottemperanza del giudicato.

3. Con sentenza 30 ottobre 2019, n. 1654, il T.A.R. Lecce:

- lo ha accolto in parte, nei termini di cui in motivazione, ritenendo che la sentenza cognitoria avesse effetto sia demolitorio che conformativo di attribuzione del bene della vita;

- per l’effetto, ha ordinato alla Regione Puglia di provvedere al rilascio, nei confronti della ricorrente, di autorizzazione unica alla costruzione ed esercizio di impianto di produzione di energia da fonte solare, di potenza pari a 7,500 MW, da realizzarsi nel Comune di Manduria, entro 30 giorni dalla pubblicazione della decisione;

- per il caso di ulteriore inottemperanza, ha nominato commissario ad acta il Prefetto di Lecce o un suo delegato, dando a questo il termine di 30 giorni per dare attuazione al giudicato;

- ha condannato la Regione al pagamento delle spese di lite e a quelle della C.T.U. disposta dal Tribunale.

4. La Regione ha interposto appello avverso la sentenza n. 1654/2019, chiedendone anche la sospensione dell’efficacia esecutiva, e nel merito sviluppando due motivi di censura.

I. Erroneità e contraddittorietà della sentenza nella parte in cui ha disposto il rilascio dell’autorizzazione unica.

La sentenza cognitoria non avrebbe vincolato la successiva attività amministrativa sino al punto da imporre il rilascio del titolo autorizzatorio.

L‘esecuzione del giudicato troverebbe ostacolo nelle sopravvenienze di fatto e di diritto anteriori alla notificazione della sentenza. Per questa ragione l’ufficio regionale, a tutela dell’interesse pubblico al rispetto dei nuovi assetti intervenuti, avrebbe richiesto una nuova autorizzazione paesaggistica e la produzione di una perizia giurata attestante la esclusione dalla verifica di progetto a VIA.

In definitiva, il primo giudice avrebbe dovuto individuare la corretta portata della decisione da ottemperare riconoscendo all’Amministrazione la possibilità di integrare gli spazi vuoti lasciati dal giudicato, medio tempore interessati dalle sopravvenienze fattuali e normative.

II. Erroneità e contraddittorietà della sentenza nella parte in cui ha vincolato la successiva attività dell’Amministrazione regionale. Eccesso di potere giurisdizionale.

Nel riscontrare, in data 3 ottobre 2017, la diffida avanzata dalla società per l’esecuzione della sentenza n. 1045/2013, l’Amministrazione avrebbe correttamente fatto rilevare la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica per il decorso del termine quinquennale di efficacia del titolo preesistente nonché l’entrata in vigore del d.m. 30 marzo 2015, recante le linee guida per la verifica di assoggettabilità a V.I.A. dei progetti di competenza delle Regioni e delle Province.

Mentre la sentenza cognitoria si sarebbe limitata ad annullare i provvedimenti impugnati lasciando impregiudicata all’Amministrazione la discrezionalità nel provvedere ex novo, su rinnovate basi, a compiere le operazioni di valutazione di propria esclusiva competenza, il giudice dell’ottemperanza si sarebbe sostituito all’Amministrazione nell’esercizio dei poteri discrezionali di questa e avrebbe inammissibilmente invaso il merito della controversia.

5. La società Globalbio si è costituita in giudizio per resistere all’appello sviluppando cinque argomenti.

I. In via preliminare: inammissibilità del ricorso per passaggio in giudicato della sentenza di ottemperanza.

Chiedendo alla società, sia pure erroneamente, di depositare tutta la documentazione a corredo dell’istanza al fine di ottemperare a quanto previsto dalla sentenza n. 1654/2019 (nota prot. n. 4826 del 19 novembre 2019), la Regione avrebbe fatto acquiescenza a quest’ultima.

II. In via preliminare: inammissibilità del ricorso in appello per violazione dei limiti del sindacato del Consiglio di Stato.

Le questioni poste dalla Regione atterrebbero a mere modalità esecutive della pronuncia e sarebbero del tutto nuove rispetto all’oggetto del giudicato. Anziché proporre ricorso per chiarimenti, l’Ente sarebbe rimasto per lungo tempo inerte di fonte a un chiaro obbligo conformativo e ripristinatorio.

III. In via preliminare: inammissibilità del ricorso in appello per violazione del divieto di nova.

Solo con l’atto di appello l’Amministrazione avrebbe contestato la sentenza di primo grado per non avere tenuto conto delle sopravvenienze asseritamente rilevanti, depositando solo in questo grado i documenti relativi. Le nuove prove prodotte, come pure le nuove argomentazioni (che costituirebbero non mere difese, ma vere e proprie eccezioni in senso stretto) avrebbero dovuto trovare la loro sede naturale nel giudizio di primo grado e perciò - a norma dell’art. 104 c.p.a. - sarebbero inammissibili in questo grado di appello.

4. Nel merito: inammissibilità e infondatezza del primo motivo del ricorso in appello.

Le precedenti sentenze avrebbero accertato, con efficacia di giudicato, la positiva conclusione del procedimento alla data della conferenza di servizi del 15 ottobre 2009, difettando unicamente il formale rilascio del titolo.

Anche alla luce delle statuizioni dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (sentenza 9 giugno 2016, n. 11), non sarebbe residuato alcun potere da esercitare a seguito della pronunzia demolitoria; il diritto al rilascio della autorizzazione unica sarebbe già entrato nel patrimonio dell’appellata, rimanendo per ciò insensibile alle ritenute sopravvenienze.

V. Infondatezza del secondo motivo di appello.

Verrebbero dedotte circostanze fattuali (scadenza dell’efficacia della autorizzazione paesaggistica) e normative (entrata in vigore del d.m. 30 marzo 2015) successive alla conclusione favorevole dell’iter procedimentale e comunque concretamente irrilevanti, posto che l’intervento non avrebbe potuto essere effettuato nei termini per fatto della Regione e la normativa del d.m. sarebbe invocata in termini del tutto generici.

6. Alla camera di consiglio del 31 gennaio 2020, sull’accordo delle parti, l’esame dell’incidente cautelare è stato differito all’udienza pubblica di discussione, con l’impegno della società resistente a non portare a ulteriore esecuzione la sentenza impugnata.

In data 13 ottobre la Regione ha depositato una memoria, nella quale replica alle eccezioni della parte privata e sostiene che il giudice dell’ottemperanza in primo grado avrebbe attribuito alla ricorrente una utilità ulteriore rispetto a quella riconosciuta in sede di cognizione, in tal modo sostituendosi all’Amministrazione nel riesercizio del potere.

La società resistente ha replicato con memoria.

Alla camera di consiglio del 29 ottobre 2020, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

7. All’appello della Regione Puglia, la società resistente oppone tre eccezioni preliminari.

8. La prima eccezione, imperniata sulla acquiescenza che la Regione avrebbe medio tempore prestato alla sentenza impugnata, è infondata.

La nota regionale prot. n. 4826 del 19 novembre 2019 subordina l’ottemperanza della sentenza qui impugnata al caricamento su un portale telematico di tutta la documentazione a corredo dell’istanza e, in tal modo, fa evidente richiamo della documentazione già richiesta con la precedente nota prot. n. 37 del 3 gennaio 2018.

Proprio per questo la società sostiene che l’Ente, nel richiedere appunto nuova documentazione, abbia commesso “evidenti errori interpretativi”.

Alla stregua delle consolidata e indiscussa giurisprudenza circa i rigorosi presupposti perché possa affermarsi una rinunzia implicita dell’Amministrazione soccombente a impugnare la sentenza di primo grado (da ultimo Cons. Stato, sez. II, 27 aprile 2020, n. 2666; sez. V, 21 ottobre 2019, n. 7134), deve escludersi che il semplice invito alla società istante a caricare la documentazione in oggetto sia di per sé incompatibile con la volontà di appellare la sentenza del T.A.R. sostenendo - come la Regione di fatto sostiene - che questa non poteva stabilire l’obbligo di rilasciare immediatamente l’autorizzazione unica.

In definitiva, la nota del 2019 non manifesta - ma anzi, al contrario, contraddice - una supposta evidente volontà di dare esecuzione tout court alla sentenza cognitoria e non può pertanto avere valore di acquiescenza alla decisione n. 1654/2019, impugnata in questa sede.

9. Infondata è anche la seconda eccezione, con cui si assume la violazione dei limiti del sindacato del Consiglio di Stato.

Appare evidente che le questioni sollevate dalla Regione (necessità di una nuova autorizzazione paesaggistica e di una perizia giurata che attesti l’esclusione del progetto dalla verifica di assoggettabilità a VIA) non attengono a mere modalità esecutive del giudicato, ma investono la portata precettiva e conformativa di questo, risolvendosi nel sostenere - contrariamente a quanto sostenuto dal T.A.R. - che il rilascio dell’autorizzazione unica non costituiva per l’Amministrazione atto dovuto, essendovi ancora un tratto di valutazione di eventuali sopravvenienze.

In ogni caso, la circostanza che la Regione non abbia coltivato la via del ricorso per chiarimenti sull’esecuzione del giudicato ex art. 112, comma 5, c.p.a., ove per avventura esperibile, non condurrebbe di per sé alla inammissibilità dell’appello, trattandosi di scelte processuali rimesse alla autonoma determinazione della parte senza che l’opzione per l’una o per l’altra possa ridondare nella inammissibilità del mezzo prescelto.

10. Del pari è da respingere la terza eccezione.

Per costante giurisprudenza, il divieto dei nova in appello, posto dall’art. 104 c.p.a., è riferito al solo ricorrente in primo grado, e non alle altre parti del processo, le quali potrebbero anche non essersi costituite nel grado precedente, e in sede di appello possono, in linea di principio, far valere qualunque motivo ritengano utile a criticare le conclusioni loro sfavorevoli cui sia giunta la sentenza impugnata (Cons. Stato sez. IV, 8 giugno 2020, n. 3628; sez. II, 17 marzo 2020, n.1892; sez. IV, 10 marzo 2020, n. 1715).

Anche in disparte tale assorbente profilo, c’è da aggiungere che il predetto divieto assume comunque tratti peculiari in sede di appello nel giudizio di ottemperanza, quando sia in contestazione fra le parti l’esistenza o meno di margini di valutazione in capo all’Amministrazione in fase di attuazione del giudicato.

In tale ipotesi, l’allegazione di nuove ragioni ostative non coperte dalla decisione cognitoria giudicato non può considerarsi alla stregua di una nuova eccezione in senso proprio, costituendo piuttosto - anche alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione (da ultimo sez. VI, 30 giugno 2020, n. 12980; sez. III, 15 novembre 2019, n. 29714) - una semplice argomentazione difensiva a sostegno della tesi dell’Amministrazione medesima, che pertanto può essere anche supportata da nuova documentazione specie quando, come nella vicenda in questione, la tesi dell’Amministrazione appellante si fondi su asserite sopravvenienze successive al giudicato.

11. Nel merito, viene in questione il delicato tema degli effetti del tempo e delle sopravvenienze (giuridiche e fattuali) sulle situazioni giuridiche dedotte in giudizio in relazione alla portata precettiva dei giudicati, sulle quali si è più volte espressa l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (cfr. Ad. plen., 9 febbraio 2016, n. 2; 13 aprile 2015, n. 4; 15 gennaio 2013, n. 2; 3 dicembre 2008, n. 13; 11 maggio 1998, n. 2; 21 febbraio 1994, n. 4; 8 gennaio 1986, n. 1).

Da ultimo, l’Adunanza plenaria 9 giugno 2016, n. 11, ha richiamato e specificato i principi già affermati, chiarendo che:

a) l’esecuzione del giudicato amministrativo (sebbene quest’ultimo abbia un contenuto poliforme), non può essere il luogo per tornare a mettere ripetutamente in discussione la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato ha, per definizione, conclusivamente deciso; se così fosse, il processo, considerato nella sua sostanziale globalità, rischierebbe di non avere mai termine, e questa conclusione sarebbe in radicale contrasto con il diritto alla ragionevole durata del giudizio, all'effettività della tutela giurisdizionale, alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici (valori tutelati a livello costituzionale e dalle fonti sovranazionali alle quali il nostro Paese è vincolato); da qui l’obbligo di esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla stabile definizione del contesto procedimentale;

b) l’Amministrazione soccombente a seguito di sentenza irrevocabile di annullamento di propri provvedimenti ha l’obbligo di ripristinare la situazione controversa, a favore del privato e con effetto retroattivo, per evitare che la durata del processo vada a scapito della parte vittoriosa;

c) questa retroattività dell’esecuzione del giudicato non può essere intesa in senso assoluto, ma va ragionevolmente parametrata alle circostanze del caso concreto ed alla natura dell’interesse legittimo coinvolto (pretensivo, oppositivo, procedimentale);

d) tale obbligo, pertanto, non incide sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo;

e) nella contrapposizione fra naturale dinamicità dell’azione amministrativa nel tempo ed effettività della tutela, un punto di equilibrio è stato tradizionalmente rinvenuto nel principio generale per cui l’esecuzione del giudicato può trovare limiti solo nelle sopravvenienze di fatto e diritto antecedenti alla notificazione della sentenza divenuta irrevocabile; sicché la sopravvenienza è strutturalmente irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee, mentre incide su quelle durevoli nel solo tratto dell’interesse che si svolge successivamente al giudicato, determinando non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la situazione giuridica medesima;

f) anche per le situazioni istantanee, però, la retroattività dell’esecuzione del giudicato trova, peraltro, un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico), nel sopravvenuto mutamento della realtà - fattuale o giuridica - tale da non consentire l’integrale ripristino dello status quo ante (come esplicitato dai risalenti brocardi factum infectum fieri nequit e ad impossibilia nemo tenetur ) che semmai, ove ne ricorrano le condizioni, può integrare il presupposto esplicito della previsione del risarcimento del danno, per impossibile esecuzione del giudicato, sancita dall’art. 112, co. 3, c.p.a.”.

Conforme è, ovviamente la giurisprudenza successiva del Consiglio di Stato (sez. VI, 6 aprile 2018, n. 2133; sez. IV, 14 dicembre 2017, n. 5897; sez. IV, 8 maggio 2017, n. 2087; sez. IV, 22 marzo 2017, n. 1300; e già prima, quasi in contemporanea con l’Adunanza plenaria, sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1551).

A questo riguardo, vale anche ricordare la perdurante validità del principio espresso da una risalente decisione della Adunanza plenaria, secondo cui “quando, dopo una pronuncia giurisdizionale di annullamento di un diniego, la situazione sulla quale l’autorità deve nuovamente provvedere sia sostanzialmente cambiata, è sulla base della nuova situazione che l’autorità deve provvedere, altrimenti l’attività amministrativa, esercitata su nuovi presupposti di fatto diversi da quelli prima considerati, potrebbe trovarsi in contrasto con l’interesse pubblico, che non può che essere attuale” (sentenza 20 novembre 1972, n. 12).

12. Applicando queste coordinate ermeneutiche alla presente controversia, l’appello della Regione risulta fondato seppur parzialmente, nei termini di cui ora si dirà.

La sentenza cognitoria, passata in giudicato, ha prodotto un effetto istantaneo, dichiarando l’illegittimità dell’atto di diniego, ma non ha completato l’intera sequenza procedimentale, per la quale manca ancora il passaggio del formale rilascio del titolo (del che appunto si discute).

Nel giudizio di merito la ricorrente faceva valere solo in apparenza un interesse oppositivo, nel qual caso la decisione sarebbe stata auto-esecutiva e si sarebbe esaurita nella immediata cancellazione del provvedimento impugnato dal mondo giuridico, escludendo di per sé l’azione di ottemperanza (Cons. Stato, sez. IV, 12 ottobre 2018, n. 5890; sez. IV, 12 maggio 2016, n. 1908; sez. III, 14 gennaio 2013, n. 130; 30 luglio 2012, n. 4314).

Si trattava invece, nella sostanza, di un interesse pretensivo o meglio ancora di quel particolare interesse oppositivo che si dà quando la decisione non sia idonea a ripristinare le posizioni lese in virtù del semplice effetto demolitorio spiegato e implichi l’esigenza che l’Amministrazione esprima una successiva attività per consentire alla parte vincitrice di conseguire “l’utilità immediata di carattere processuale e l’utilità mediata di carattere sostanziale cui era volta l’attivazione del rimedio giurisdizionale” (Cons. Stato, sez. VI, 4 settembre 2012, n. 4685).

Si coglie in tal modo l’esistenza di uno spazio logico e temporale fra la conclusione del procedimento e il conseguimento del bene della vita perseguito (il rilascio della autorizzazione unica), nel quale possono inserirsi quelle sopravvenienze di fatto e di diritto di cui non è consentito non tenere conto.

In altri termini, non può essere seguito il T.A.R. nel ritenere che, alla stregua di quanto da esso stesso accertato nella precedente sentenza n. 1045/2013, il rilascio dell’autorizzazione unica costituisse per la Regione un esito vincolato, tale da restare insensibile a qualsiasi sopravvenienza; in realtà, nella predetta sentenza il T.A.R. aveva soltanto accertato l’avvenuta rituale conclusione della conferenza di servizi, ma ciò non s’identifica affatto con la conclusione dell’iter autorizzatorio ex art. 12, d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387: tanto si ricava dalla giurisprudenza, che attribuisce alla determinazione conclusiva della conferenza il valore di “atto istruttorio endoprocedimentale a contenuto consultivo”, ben distinto dal provvedimento di autorizzazione unica che deve essere poi rilasciato dalla Regione (Cons. Stato, sez. IV, 2 aprile 2020, n. 2235; sez. V, 12 novembre 2018, n. 6342; sez. V, 23 dicembre 2013, n. 6192).

Ne discende che, ove mai fra il momento della conclusione della conferenza e quello in cui deve essere rilasciata l’autorizzazione unica fossero intervenute sopravvenienze fattuali o normative, di queste l’Amministrazione avrebbe dovuto tenere conto ai fini del decidere in virtù del normale principio tempus regit actum (e salvo il diverso tema delle responsabilità per l’eventuale ritardo dell’Amministrazione nel definire il procedimento).

13. Ciò premesso, e venendo al merito della causa, l’appello della Regione è parzialmente fondato, nel senso che, nel caso di specie, l’Amministrazione ha legittimamente richiesto alla società odierna appellata la perizia giurata attestante l’esclusione del progetto dalla verifica di assoggettabilità a VIA, mentre lo stesso non vale per la richiesta di una nuova autorizzazione paesaggistica.

14. Cominciando da quest’ultima, l’Amministrazione sostiene che la precedente autorizzazione fosse scaduta per decorso del quinquennio e per questo ne occorresse una nuova, ma dall’esame della documentazione versata nel giudizio a quo risulta che in sede di conferenza di servizi nel 2009 la competente Soprintendenza diede atto dell’assenza di vincoli sull’area interessata dal progetto, comunicando pertanto il proprio nulla osta.

Pertanto, delle due l’una:

- o dall’inizio - come appunto sembra - non era richiesta alcuna autorizzazione paesaggistica, e allora evidentemente la Regione non poteva pretenderla in sede di ottemperanza al giudicato;

- o il vincolo è sopravvenuto al giudicato, e la Regione avrebbe avuto l’onere di documentarlo. In tal caso, troverebbe allora applicazione la giurisprudenza richiamata dall’appellata in ordine all’inopponibilità del vincolo sopravvenuto agli interventi già autorizzati sotto il profilo edilizio, quando i lavori non siano iniziati per causa non imputabile all’interessato (Cons. Stato, sez. VI, 17 luglio 2018, n. 4362; sez. VI, 17 giugno 2010, n. 3851). E, nella specie non v’ha dubbio che in conferenza fossero stati già acquisiti tutti gli assensi necessari sotto il profilo edilizio, mentre ciò che non si era concluso era l’iter dell’autorizzazione unica.

Dalla lettura dei documenti versati nel fascicolo processuale sembra peraltro che la Regione continui a rifarsi a quanto esposto nel provvedimento impugnato in sede cognitoria e annullato dal T.A.R. In questo l’inidoneità dell’area alla installazione dell’impianto è argomentata con riferimento alle prescrizioni del D.G.R. n. 3029 del 30 dicembre 2010 e del regolamento regionale n. 24/2010, cioè a fonti inidonee - per le ragioni esposte nella sentenza n. 1045/2013 - a governare la vicenda.

In ogni caso, ove anche la nota acquisita in conferenza nel 2009 volesse intendersi come una vera e propria autorizzazione paesaggistica, troverebbe applicazione l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004 (anch’esso invocato dall’appellata), secondo cui il termine di efficacia dell’autorizzazione non inizia a decorrere quando il titolo edilizio non abbia acquisito efficacia per causa non imputabile al richiedente.

In questa parte, dunque, l’appello è infondato e va respinto.

15. Invece, con riguardo alla VIA, il sopravvenuto d.m. 30 marzo 2015 prevede espressamente, all’art. 4, comma 2, che: “Le linee guida allegate al presente decreto si applicano a tutti i progetti per i quali la procedura di verifica di assoggettabilità o la procedura autorizzativa è in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto” (e si è visto che nella specie la procedura autorizzativa non si era conclusa), senza prevedere deroghe né eccezioni.

Pertanto, legittimamente la Regione ha chiesto alla società odierna appellata di integrare la documentazione secondo quanto previsto dalla sopravvenuta normativa in materia di VIA (segmento procedimentale che inoltre, giusta il comma 4 dell’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, non avrebbe imposto una riconvocazione della conferenza di servizi, restando estraneo ad essa).

La sopravvenienza normativa è un fatto di cui correttamente la Regione ha tenuto conto nel non dare corso alla nuova richiesta della società intesa al rilascio del titolo.

In questa parte, l’appello regionale è fondato e va pertanto accolto, con parziale riforma della sentenza impugnata e reiezione in parte qua del ricorso di primo grado.

Resta impregiudicata la diversa questione se nella vicenda residui margine per un eventuale rimedio risarcitorio per ritardo nell’esecuzione del giudicato, ai sensi dell'art. 112, comma 3, c.p.a., in ciò tenendo conto anche del comportamento delle parti contrapposte, nella misura in cui la Regione non ha appellato la sentenza n. 1045/2013 e di questa la società ha chiesto l’esecuzione solo a partire dal 2017.

16. Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello è in parte fondato, nei termini di cui ora si è detto, e in questa parte va accolto, con parziale riforma della sentenza impugnata e reiezione in parte qua del ricorso in ottemperanza.

Considerata la reciproca soccombenza, le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate fra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte, come meglio detto in motivazione, e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, respinge in parte qua il ricorso di primo grado introduttivo del giudizio di ottemperanza.

Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 ottobre 2020 con l’intervento dei magistrati:

Raffaele Greco, Presidente

Giuseppe Castiglia, Consigliere, Estensore

Luca Lamberti, Consigliere

Alessandro Verrico, Consigliere

Emanuela Loria, Consigliere

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giuseppe Castiglia Raffaele Greco
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO


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