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Consiglio di Stato, Sez. IV, 7/5/2019 n. 2928
Sulla rimessione all'Adunanza Plenaria della questione se la società incorporante possa essere considerata responsabile del danno ambientale causato dalla incorporata

Materia: ambiente / disciplina
Pubblicato il 07/05/2019

N. 02928/2019 REG.PROV.COLL.

N. 07287/2016 REG.RIC.           

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA

sul ricorso numero di registro generale 7287 del 2016, proposto da Alcatel-Lucent Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Stefano Verzoni e Claudio Vivani, con domicilio eletto presso lo studio associato Gatti-Pavesi-Bianchi in Roma, piazza dei Caprettari, 70;


contro

Provincia di Asti e Comune di Asti, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Gianni Maria Saracco, domiciliati presso la segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13; 
ARPA - Agenzia regionale per la protezione ambientale per il Piemonte, Dipartimento Provinciale di Asti, non costituita in giudizio;

nei confronti

IAO - Industrie Riunite s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Stefano Gattamelata, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via di Monte Fiore, 22; 
Meritor Heavy Vehicle Systems Cameri s.p.a. (già Arvinmeritor Suspension Systems s.r.l.), Regione Piemonte, Azienda Sanitaria Locale di Asti, non costituiti in giudizio; 

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Prima, n. 674 del 13 maggio 2016, resa tra le parti, concernente ordine di bonifica di aree contaminate da cromo esavalente e da solventi clorurati.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia di Asti, del Comune di Asti e di IAO - Industrie Riunite s.p.a.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 novembre 2018 il Cons. Luca Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Mariano Protto su delega di Claudio Viviani, Giorgio Papetti su delega di Gianni Maria Saracco e Stefano Gattamelata;


1. La società ricorrente ha impugnato avanti il T.a.r. per il Piemonte la determinazione dirigenziale n. 1262 dell’11 maggio 2015, con cui la Provincia di Asti, su conforme parere del Comune di Asti e dell’ARPA - Agenzia regionale per la protezione ambientale per il Piemonte, ha diffidato la società Alcatel-Lucent Italia s.p.a. “a procedere alla bonifica dello stabilimento sito in via Antica Cittadella 2 del Comune di Asti in corrispondenza dell’area <<vecchia cromatura>> secondo quanto previsto dal d.lgs. 152/2006 all’art. 244 comma 2 … presentando … una proposta operativa per la bonifica delle aree contaminate da cromo esavalente e da solventi clorurati, ad integrazione delle attività di bonifica già operate sul sito … e tenendo in considerazione i risultati delle indagini già condotte sul sito”.

La determinazione è basata sulle risultanze processuali di vari giudizi civili e penali afferenti alla vicenda dell’inquinamento del sottosuolo dello stabilimento industriale “Way Assauto” ubicato in Comune di Asti, attivo sin dai primi anni del secolo scorso e destinato principalmente, almeno a decorrere dalla fine del secondo conflitto mondiale, alla produzione di ammortizzatori.

2. Il T.a.r. per il Piemonte, con sentenza n. 6741 del 13 maggio 2016, ha respinto il ricorso.

3. La società Alcatel-Lucent Italia s.p.a. (di seguito Alcatel) ha interposto appello.

Con coeva sentenza non definitiva (cui si rimanda per l’inquadramento fattuale della vicenda, in ossequio all’art. 3, comma 2, c.p.a.) questa Sezione ha respinto tutte le censure articolate da Alcatel ad eccezione di una, indicata come censura sub a), il cui scrutinio si ritiene necessario devolvere all’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, involgendo un punto di diritto di particolare importanza.

4. In particolare, la ricorrente premette che:

- si si sarebbe sempre occupata di tutt’altro settore merceologico e, quindi, non avrebbe mai gestito direttamente l’impianto, né ne sarebbe mai stata proprietaria;

- l’assunta contaminazione sarebbe imputabile alla società IAO – Industrie Riunite s.p.a., che avrebbe gestito lo stabilimento sino al 1981, ed alla società Siette s.p.a., che avrebbe incorporato la IAO nel 1981 ed avrebbe operato in situ sino al 1986;

- la società Siette si sarebbe estinta nel luglio 1991, al momento dell’incorporazione in Alcatel.

5. Ciò premesso, la ricorrente sostiene, per quanto di interesse ai fini della presente ordinanza, che:

- il d.lgs. n. 22 del 1997 (cd. “decreto Ronchi”), il cui art. 17 avrebbe per la prima volta introdotto nell’ordinamento l’obbligo di procedere a bonifica in capo al soggetto responsabile di eventi di contaminazione, non potrebbe essere applicato “in relazione ad episodi di inquinamento verificatisi anteriormente alla propria vigenza”, alla luce del carattere di novità dell’istituto de quo, che non si porrebbe in un rapporto di continuità normativa con le previgenti ipotesi di responsabilità civile;

- ove si ritenga diversamente, comunque l’ordine di bonifica non potrebbe essere indirizzato né a IAO e Siette, che si sarebbero irrevocabilmente estinte rispettivamente nel 1981 e nel 1991, né ad Alcatel, che non avrebbe mai direttamente posto in essere alcuna condotta inquinante;

- per altro verso, Siette non avrebbe trasferito ad Alcatel alcuna situazione soggettiva di obbligo di facere, sia perché la condotta di contaminazione non avrebbe avuto alcun “disvalore giuridico al momento in cui è stata commessa” (cfr. memoria depositata in data 15 ottobre 2018, pag. 19), sia, comunque, perché la legislazione vigente ratione temporis non avrebbe in radice conosciuto l’istituto dell’ordine di bonifica.

6. Sulla questione in esame questo Consiglio si è già espresso con sentenza della Quinta Sezione n. 6055 del 5 dicembre 2008.

Le conclusioni ivi raggiunte sono poi state ribadite, per vero senza ulteriori approfondimenti, nella successiva sentenza della Quinta Sezione n. 2809 del 23 giugno 2016.

In sintesi, la sentenza n. 6055 ha ritenuto che i “molteplici formanti normativi” anteriori al d.lgs. n. 22 del 1997, pur “posti a presidio della conservazione del valore ambiente, con finalità di contrasto delle varie condotte suscettibili di ingenerare inquinamento … contemplavano essenzialmente divieti o doveri, taluni dei quali pure rinforzati da sanzioni amministrative o penali, nondimeno nessuna delle previsioni invocate conteneva specifici obblighi di fare del genere di quelli prescritti dall’art. 17 del decreto Ronchi. La peculiarità dell’istituto disciplinato dall’art. 17 risiede, infatti, nella sua natura di misura ablatoria personale, consentita in apicibus dall’art. 23 Cost., la cui adozione crea in capo al destinatario un obbligo di attivazione, consistente nel porre in essere determinati atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale dei siti inquinati. Le norme ricordate dalle appellanti non avevano tale connotazione e, dunque, non rappresentavano un antecedente dell’art. 17”.

La sentenza n. 6055 ha, poi, argomentato in ordine alla natura non meramente procedimentale della citata disposizione dell’art. 17, la quale, lungi dall’essere “unicamente destinata a regolare l’attuazione in via amministrativa, al momento della scoperta dell’inquinamento, dell’obbligo di risarcimento di cui all’art. 2058 c.c. e quindi, come tale, del tutto priva di innovatività sostanziale dell’ordinamento giuridico”, avrebbe di contro carattere pienamente sostanziale e non sarebbe, in particolare, riconducibile a mera species del genus responsabilità aquiliana.

La sentenza ha, in proposito, fatto applicazione della teoria della “continuità normativa”, che descriverebbe “un particolare atteggiarsi, <<debole>> o <<a bassa innovatività>>, della <<forza di legge>> ogniqualvolta, al formale succedersi di previsioni legislative, non corrisponda un’effettiva eliminazione né una radicale modifica della normativa cronologicamente anteriore, di tal che i precetti in questa contenuti, malgrado la legge sopravvenuta e l’immutazione del veicolo normativo, continuano a sopravvivere nell’ordinamento, ancorché trasfusi in diversi contenenti legislativi. Più in dettaglio, sussiste continuità normativa tra due prescrizioni normative quando la disposizione temporalmente posteriore si presenti diretta alla tutela di identici beni giuridici e isomorfica rispetto alla precedente”. Con riferimento al caso di specie, l’applicazione della teoria in esame permetterebbe, “operando all’indietro nel tempo, di riconoscere come già esistenti, in passato, nel patrimonio del dante causa, effetti giuridici precisati da leggi successive da reputarsi, per l’appunto, in continuità normativa con le prescrizioni vigenti prima dell’estinzione del dante causa”.

La sentenza ha escluso che l’art. 17 sia in legame di “continuità normativa” con l’art. 2043 c.c. (e, più in generale, con le ipotesi codicistiche cd. “speciali” di responsabilità aquiliana) sulla base di plurime considerazioni:

1) diverso è il rapporto che intercorre tra gli effetti giuridici prodotti e la relativa fonte, dal momento che nel caso dell’art. 2043 c.c. i primi discendono ex se dalla sussunzione della fattispecie concreta nel paradigma normativo, salvo l’intervento del provvedimento giurisdizionale in presenza di patologie dovute alla mancanza di una spontanea esecuzione della legge da parte del responsabile civile, mentre l’art. 17 postula sempre l’intermediazione di un procedimento e di un provvedimento amministrativo;

2) diversi sono la natura e il contenuto delle situazioni giuridiche passive scaturenti dalle due previsioni, giacché il plesso di cui agli artt. 2043-2058 c.c. dà luogo, di regola, ad un’obbligazione risarcitoria pecuniaria (species del genus degli obblighi di dare), salvo che sia accolta dal giudice, qualora non ricorra alcuna condizione ostativa (come l’impossibilità o l’eccessiva onerosità), una ipotetica richiesta di risarcimento in forma specifica; l’art. 17, per contro, è costitutivo di un primario obbligo di fare (ablazione personale) del responsabile dell’inquinamento, nonché di un sussidiario ed eventuale obbligo di intervento (pubblicistico) del Comune e, in via di ulteriore subordine, di un obbligo di intervento (pubblicistico) della Regione, escluso in ogni caso il limite dell’eccessiva onerosità (v. il comma 13-ter dell’art. 17);

3) diversi sono i presupposti per la produzione degli effetti dal momento che, per l’art. 2043 c.c., [ciò che] occorre è soltanto l’accertamento di un danno ambientale, anche minimo, causalmente collegato ad una condotta, omissiva o commissiva, soggettivamente imputabile; mentre, per l’applicazione dell’art. 17, è sufficiente il mero pericolo di inquinamento o, nel caso di contaminazione, il superamento dei limiti di accettabilità stabiliti dal D.M. n. 471/1999;

4) diverso è il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità: a titolo di colpa (soggettivo) o di “rischio d’impresa” (colpa presunta) per gli artt. 2043 e 2050 c.c., sempre oggettivo (“anche in maniera accidentale”, recita il comma 2 dell’art. 17) nel caso del decreto Ronchi;

5) diversi sono, per l’appunto, i legittimati passivi: il danneggiante e i suoi successori a titolo universale, nell’ipotesi della responsabilità extracontrattuale; l’autore diretto dell’inquinamento nell’art. 17, in disparte il parallelo onere di attivazione del proprietario del terreno inquinato ove questi intenda scongiurare il pregiudizio al regime giuridico del bene immobile (onere reale e privilegio speciale) conseguente all’adozione delle ordinanze di bonifica;

6) diversi sono gli strumenti offerti dall’ordinamento per portare ad esecuzione i provvedimenti, rispettivamente, giurisdizionali o amministrativi: gli ordinari rimedi previsti dal codice di procedura civile (e, segnatamente, gli artt. 612 e ss. c.p.c.) per gli artt. 2043 e ss. c.c., l’autotutela esecutiva “in danno” a cura della pubblica amministrazione per le ordinanze di bonifica non ottemperate dal responsabile dell’inquinamento;

7) solo l’art. 17, come accennato, riconnette poi all’adozione delle ordinanze la costituzione di un onere reale sul fondo e la previsione di cause di prelazione (sotto forma di un privilegio speciale immobiliare e di un privilegio generale mobiliare) del credito per le spese di bonifica e di messa in sicurezza;

8) l’art. 2043 c.c. si pone in rapporto di specialità con l’art. 18 della L. n. 349/1986, mentre le misure di cui all’art. 17 concorrono (v. l’art. 18, comma 4, del D.M. n. 471/1999) con il danno ambientale.

A tale elenco di differenze, che potrebbe ancora continuare, va aggiunta la circostanza - estranea all’intima struttura delle due fattispecie, ma di per sé significativa della loro irriducibile alienità – della diversa giurisdizione competente, di regola, a conoscere delle eventuali controversie”.

Da tali osservazioni la sentenza ha, quindi, tratto il principio secondo cui “un’eventuale applicazione dell’art. 17 ad un soggetto estinto prima del 1997 trasmoderebbe in una non consentita applicazione retroattiva della legge”, giacché “nell’ipotesi in esame non è ravvisabile una remota partecipazione causale del successore a titolo universale all’eziogenesi dell’evento”, interamente dovuto, come nella presente controversia, ad altro soggetto poi (tramite alcuni passaggi societari intermedi) incorporato: “in siffatta evenienza”, conclude la sentenza, “per non incorrere in una violazione dell’art. 11 delle preleggi residuerebbe, appunto, in linea teorica soltanto la soluzione applicativa incentrata sulla trasmissione iure successionis dell’obbligo di provvedere, ma – come sopra spiegato – nemmeno tale opzione è praticabile, ostandovi la discontinuità normativa che separa l’art. 17 dalle norme codicistiche in tema di responsabilità extracontrattuale”.

La sentenza ha evidenziato che una precedente pronuncia della Sesta Sezione (la n. 5283 del 9 ottobre 2007), benché si presenti “in apparente contrasto” con le conclusioni raggiunte, formulerebbe in realtà degli “assunti pienamente compatibili”.

La sentenza n. 6055 ha premesso che “la Sesta Sezione, nel respingere l’appello dell’ex-concessionario (soccombente anche in primo grado), affermò – espressamente adeguandosi ad un precedente della Cassazione (sez. III pen., 28.4.2000, n. 1783) - tre importanti principi, ossia:

a) che il lungo lasso di tempo trascorso non esentava l’appellante dalla responsabilità per l’inquinamento;

b) che l’art. 17 trovava applicazione a qualunque situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dall’epoca, ove pure remota, alla quale dovesse farsi risalire il fatto generatore della situazione patologica;

c) che l’art. 17 poteva essere applicato anche nei confronti di responsabili dell’inquinamento che non avessero più la disponibilità delle aree danneggiate”.

Nel caso trattato dalla Sesta Sezione, tuttavia, vi sarebbe stata una “fondamentale differenza rispetto al caso che occupa il Collegio”: nel caso di cui si era occupata la Sesta Sezione, infatti, “il soggetto autore dell’inquinamento esisteva già prima dell’entrata in vigore del decreto Ronchi (e continuò ad esistere successivamente)”.

Infine, con riferimento al rischio, paventato dalle Amministrazioni resistenti, di elusione delle conseguenze previste dalla legge per le ipotesi di compromissione ambientale, la sentenza ha osservato che “nei confronti dei successori dei responsabili degli inquinamenti è possibile far valere, a regime, l’ordinaria responsabilità civilistica di tipo aquiliano; inoltre, sul versante amministrativo, rimangono comunque adottabili (come già avveniva in epoca antecedente all’entrata in vigore del decreto Ronchi) i provvedimenti contingibili contemplati dall’ordinamento per i casi di qualificate urgenze di intervenire … In particolare, nei provvedimenti contingibili e urgenti l’imputazione soggettiva degli obblighi di attivazione, discrezionalmente individuati dall’amministrazione procedente, può motivatamente seguire anche le diverse regole della successione c.d. <<economica>> (per un’applicazione della successione economica in materia di concorrenza, è utile il richiamo alla recente sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee 11.12.2007, in causa C-280/06, pronunciata su rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato) che consentono, per la migliore e immediata tutela di fondamentali interessi superindividuali, di derogare al generale principio della personalità e, in ossequio al canone del <<chi inquina paga>>, di onerare chi abbia beneficiato delle valenze economiche, anche latenti, di un bene-impresa dei correlativi costi dell’internalizzazione delle diseconomie esterne prodotte”.

7. Orbene, il Collegio concorda con le argomentazioni svolte nel precedente citato in ordine alle differenze ontologiche fra art. 17 del decreto Ronchi ed il blocco normativo degli articoli 2043 e ss. c.c., che, unitariamente considerate, impediscono di poter qualificare il primo come mera species delle ipotesi codicistiche di responsabilità civile.

Come noto, peraltro, il “decreto Ronchi” è stato poi abrogato dal d.lgs. n. 152 del 2006: la continuità normativa fra i due corpi normativi (e, in particolare, fra l’art. 17 del primo e gli articoli 242 e ss. del secondo) è, tuttavia, evidente ed indirettamente confermata dall’art. 264, comma 1, lett. i, d.lgs. n. 152 del 2006, sì che le affermazioni operate in relazione al primo sono formulabili anche con riferimento al secondo.

8. Il Collegio, piuttosto, dubita della conclusione cui perviene il citato precedente, secondo cui una società che abbia incorporato un’altra società (direttamente o tramite incorporazioni intermedie) nel regime anteriore alla modifica del diritto societario non possa essere considerata essa stessa, ai sensi e per gli effetti dell’applicazione dell’art. 17 del “decreto Ronchi” (e, in seguito, degli articoli 242 e ss. del d.lgs. n. 152 del 2006), soggetto direttamente responsabile dell’inquinamento.

La delibazione della questione richiede un approfondimento in ordine al fenomeno della fusione.

L’istituto in parola, come noto, è disciplinato nelle sue conseguenze dall’art. 2504-bis c.c., la cui attuale versione testuale, in vigore a decorrere dal 2005, stabilisce che “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

Con riferimento alle fusioni antecedenti all’introduzione nel codice civile dell’art. 2504-bis c.c., la giurisprudenza riteneva che la fusione per incorporazione determinasse l’estinzione della società incorporata ed il trasferimento dei relativi diritti ed obblighi in capo all’incorporante, in esito ad una vicenda del tutto assimilabile ad una successione in universum jus (v. Cass., Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183; Cass., Sez. 1, 16 febbraio 2007, n. 3695; Cass., Sez. 1, 22 giugno 1999, n. 6298).

Nel vigore dell’attuale testo, invece, la giurisprudenza qualifica la fusione come mera “vicenda evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che, pur in presenza di un nuovo assetto organizzativo, conserva la propria identità” (v., da ultimo, Cass., Sez. 6, ord. 16 maggio 2017, n. 12119).

Tale ricostruzione del fenomeno della fusione, tuttavia, non è estensibile alle fusioni “anteriori all’entrata in vigore della nuova disciplina”, giacché la riforma “ha natura innovativa e non interpretativa e, pertanto, il principio, da esso desumibile, per cui la fusione tra società si risolve in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo, non vale per le fusioni” realizzate in epoca anteriore, che continuano ad integrare un fenomeno di successione caratterizzato, inter alia, dall’estinzione della società incorporata (così Cass., Sez. 1, 23 gennaio 2016, n. 1376).

Ciò premesso, l’applicazione della traiettoria argomentativa tracciata dal precedente in commento alla presente controversia determinerebbe la formulazione del seguente assunto: poiché il “decreto Ronchi” introduce disposizioni sostanzialmente innovative dell’ordinamento e, come tali, non applicabili retroattivamente, e poiché l’incorporazione di Siette da parte di Alcatel (e, a fortiori, quella di IAO da parte di Siette) è avvenuta in epoca anteriore alla modifica del diritto societario, ergo Alcatel non potrebbe essere succeduta nell’obbligo di bonifica, in radice non esistente allorché l’incorporazione, concretante fenomeno di successione in universum jus con contestuale estinzione dell’incorporata, ebbe luogo.

Il Collegio rileva, anzitutto, che il compimento di condotte di compromissione ambientale costituiva pacificamente un illecito civile anche prima dell’emanazione del “decreto Ronchi”: la stessa sentenza n. 6055, del resto, non dubita che l’incorporante risponda in via extra-contrattuale dei danni ambientali causati illo tempore dall’incorporata.

Ora, in termini generali la commissione di una condotta contra jus cristallizza, in capo all’autore, una correlativa responsabilità giuridica.

Nel caso di specie, la responsabilità per la compromissione ambientale è, dunque, divenuta parte del complessivo patrimonio giuridico lato sensu inteso della società che ha causato la contaminazione (nel caso di specie, sia IAO sia Siette).

Ciò posto, il Collegio si interroga se tale responsabilità giuridica per condotte già allora pienamente contra jus, quale componente giuridicamente qualificata del complessivo patrimonio della società incorporata, ovvero in diversa prospettiva quale effetto giuridico già interamente prodottosi, non possa essere anch’essa traslata nel patrimonio della società incorporante, in virtù della portata generale del fenomeno della successione a titolo universale.

E’, in proposito, opportuno rilevare che l’art. 17 del “decreto Ronchi” (al pari delle conseguenti disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006) non ha natura penalistica né, comunque, genericamente afflittiva, ma, di contro, mira a ripristinare il bene ambiente leso, mediante l’imposizione autoritativa ed unilaterale, da parte dell’Amministrazione, di un obbligo di facere in capo al responsabile al fine di ovviare ad un danno ancora attuale.

Con maggiore sforzo analitico, il Collegio osserva che la disposizione in parola:

- si affianca alle ordinarie forme di tutela civile (articoli 2043, 2050 e 2058 c.c.) attingibili dai privati lesi nella propria sfera giuridica (tanto patrimoniale quanto non patrimoniale) dalla condotta di inquinamento;

- plasma un istituto a tutela dell’interesse pubblico alla preservazione del bene ambiente, attribuendo (significativamente) agli Enti esponenziali della collettività locale la potestà di ordinare al responsabile l’adozione di condotte tese alla bonifica dell’area (che, da un punto di vista funzionale, sono esattamente contrarie a quelle precedentemente poste in essere).

In sostanza l’ordinamento, fatta salva la tutela degli interessi privati con gli ordinari strumenti del codice civile, ha forgiato, al fine di apprestare la più efficace protezione al bene ambiente, del resto oggetto di diretta valenza costituzionale (art. 9 Cost.), uno strumento pubblicistico teso non a monetizzare la diminuzione del relativo valore (in ciò sostanziandosi la tutela per equivalente), ma a consentirne il recupero materiale a cura e spese del responsabile della contaminazione.

Questa misura differisce certo dall’art. 2058 c.c. (come evidenziato dalla sentenza n. 6055) per plurimi profili: non è richiesto l’elemento soggettivo; non vi è il limite dell’eccessiva onerosità; non vi è l’intermediazione giudiziale; non vi è la necessità della domanda di parte, al lume del carattere doveroso, per l’Amministrazione, del provvedimento; non vi è la dimensione succedanea ed alternativa rispetto alla monetizzazione del danno.

Ciononostante, la misura palesa un’intrinseca e costitutiva dimensione ripristinatoria-reintegratoria che ne impedisce l’ascrizione all’ambito del diritto lato sensu punitivo: questo, infatti, è finalizzato non a recuperare il bene leso, bensì a depauperare la sfera giuridica (patrimoniale, funzionale o personale) del soggetto autore di una condotta contra jus (in base, tra l’altro, anche alla intensità dell’elemento soggettivo).

In termini generali, del resto, nel diritto punitivo il focus è sull’autore dell’illecito, mentre nel diritto ripristinatorio l’attenzione è tutta sul bene leso dall’illecito.

Peraltro, un profilo che dimostra a contrario la natura ripristinatoria della misura prevista dall’art. 17 del “decreto Ronchi” (e dagli articoli 242 e ss. del d.lgs. n. 152 del 2006) è l’affermata possibilità della relativa applicazione anche a fenomeni di inquinamento verificatisi anteriormente, purché la contaminazione dei luoghi sia ancora in essere: si veda, sul punto, proprio la citata sentenza della Sesta Sezione n. 5283 del 9 ottobre 2007, ove si precisa che “posto che l’inquinamento dà luogo ad una situazione di carattere permanente che perdura fino a che non ne vengano rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati siano riportati entro i limiti normativamente accettabili, si deve convenire, in armonia con i puntuali rilievi svolti sul punto dal Primo Giudice, che le previsioni del decreto Ronchi si applicano a qualunque sito che risulti attualmente inquinato, indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica”.

In particolare la Sesta Sezione, nel valorizzare il disposto dell’art. 51-bis del d.lgs. n. 22 del 1997, sostiene che “non si tratta di portata retroattiva della norma ma dell’applicazione ratione temporis della legge onde fare cessare gli effetti di una condotta omissiva a carattere permanente, che possono essere elisi solo con la bonifica; detto altrimenti, non viene sanzionato l’inquinamento in epoca precedente prodotto ma la mancata eliminazione degli effetti che permangono nonostante il fluire del tempo”.

L’approdo esegetico in commento si è, per vero, consolidato nella giurisprudenza di questo Consiglio: si veda, da ultimo, la sentenza della Quarta Sezione n. 5761 dell’8 ottobre 2018, § 23 e ss., ove sono contenuti ulteriori riferimenti giurisprudenziali.

9. Orbene, riannodando i fili della questione, si ha che se l’istituto delineato dall’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 (e, poi, dagli articoli 242 e ss. d.lgs. n. 152 del 2006) può trovare applicazione anche a fenomeni di inquinamento verificatisi prima della sua entrata in vigore, alla sola condizione che l’evento “compromissione dell’ambiente” sia – come nella specie – ancora attuale, l’unico diaframma che, adottando l’ottica interpretativa tratteggiata dalla sentenza n. 6055, impedirebbe di attingere con il provvedimento in esame Alcatel è rappresentato dal fatto che l’incorporazione di Siette si è verificata nel vigore di un’esegesi giurisprudenziale che vedeva nella fusione un fenomeno di estinzione della società incorporata e di successione in universum jus da parte dell’incorporante.

Tuttavia, osserva dubitativamente il Collegio, una diversa conclusione potrebbe essere raggiunta se si ponesse l’accento sul carattere appunto universale della successione in universum jus e sul fatto che, al momento dell’incorporazione, nel patrimonio della società incorporata era già presente la responsabilità per la commissione di un atto già allora oggettivamente contra jus.

Assumendo una diversa postura prospettica, l’antecedente condotta di inquinamento posta in essere dall’incorporata, in quanto già allora anti-giuridica, ha generato in capo ad essa, secondo il criterio norma-fatto-effetto, una responsabilità che, a seguito dell’incorporazione, non potendo andare dispersa (il principio della conservazione dei valori giuridici è immanente nell’ordinamento – cfr. art. 1367 c.c.), non può che essere confluita, come posta passiva, nel patrimonio dell’incorporante.

In tale ottica, peraltro, non si ravviserebbe alcuna applicazione retroattiva dell’art. 17, posto che una conclusione siffatta si limiterebbe a riconnettere ad un danno ancora attuale le conseguenze che il vigente diritto contempla: di tale conseguenze non potrebbe che rispondere la società succeduta a titolo universale al soggetto che ebbe a causare quel danno.

Altrimenti argomentando, si ritiene, non solo si potrebbe consentire un commodus discessus per eludere le norme imperative a tutela del bene ambiente, ma – da un punto di vista sistematico – si ammetterebbe la possibilità di una sorta di limitazione extra ordinemdella responsabilità giuridica per la commissione di condotte illecite produttive di un danno ancora attuale.

Sotto altro aspetto, potrebbe altresì circoscriversi praeter legem (se non addirittura contra legem) la pienezza contenutistica del fenomeno successorio a titolo universale, funzionale proprio a consentire - a tutela non tanto delle parti interessate, quanto soprattutto dei terzi e dell’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche - la prosecuzione a tutti gli effetti giuridici del patrimonio del soggetto estinto, salve solo specifiche e tassative eccezioni (ad esempio, i cd. “diritti intrasmissibili”).

In una visuale più ampia, poi, che una condotta ab origine contra jus possa essere oggetto di conseguenze previste anche da leggi emanate in epoca successiva alla condotta del danneggiante, purché il danno sia ancora attuale, è positivamente escluso solo con riguardo alla pena (giova peraltro evidenziare, sul punto, la differenza fra gli articoli 1 e 2 c.p. da un lato, e gli articoli 199 e 200 c.p. dall’altro) e, in generale, alle misure amministrative a contenuto sanzionatorio (cfr. art. 1 l. n. 689 del 1981).

10. Così esposta la questione, il Collegio rimette l’affare all’Adunanza Plenaria per la decisione in ordine al punto di diritto de quo.

Il Collegio ribadisce che con coeva sentenza non definitiva sono già stati respinti tutti i restanti motivi di doglianza avanzati da Alcatel.

Pertanto, l’eventuale adesione da parte dell’Adunanza Plenaria all’indirizzo espresso da questo Consiglio nel precedente del 2008 imporrebbe di riconoscere la fondatezza della censura svolta da Alcatel sub a), con conseguente accoglimento del ricorso in appello ed annullamento del provvedimento gravato in prime cure.

Specularmente, un revirement imporrebbe di riconoscere l’infondatezza anche della censura in esame e condurrebbe al definitivo rigetto dell’appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza Plenaria.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 15 novembre 2018, con l'intervento dei magistrati:

Paolo Troiano, Presidente

Oberdan Forlenza, Consigliere

Leonardo Spagnoletti, Consigliere

Luca Lamberti, Consigliere, Estensore

Nicola D'Angelo, Consigliere

 
 
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Luca Lamberti Paolo Troiano
 
 
 

IL SEGRETARIO


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