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Nota a Cons. Stato, sez. V, n.5097/2020
di Adriana Caroselli 25 settembre 2020
Materia: appalti / disciplina

Nota a Cons. Stato, sez. V, n.5097/2020

di Adriana Caroselli

 

Con la sentenza n.5097/2020 la Quinta sezione del Consiglio di Stato rimette al giudice costituzionale alcune questioni di legittimità costituzionale relative alla previsione contenuta nel primo comma dell’art. 177 d.lgs. 50/2016 e nella norma di delega, l’art.1, c.1, lett.iii), l.11/2016, riproponendo le perplessità già avanzate nel parere reso sullo schema delle Linee guida Anac (Comm. Spec., n.1582/2018).

L’art.177, c.1, (e la norma delegante di identico tenore) dispone che gli affidatari diretti di concessioni di lavori, servizi pubblici o forniture di importo superiore a 150.000 euro (nel parere del 2018 il Consiglio di Stato ha chiarito, infatti, che detto limite si riferisce all’importo della concessione e non dei contratti da esternalizzare), già in essere alla data di entrata in vigore del codice, sono obbligati ad esternalizzare l’ottanta per cento dei contratti relativi alle concessioni, introducendo clausole sociali per la salvaguardia del personale.

La quota da esternalizzare scende al sessanta per cento per i concessionari autostradali.

La quota rimanente può essere affidata, nel caso di servizi pubblici, a società in house, ovvero, per gli operatori privati, a società direttamente o indirettamente controllate o collegate.

L’obbligo deve essere adempiuto entro il 31 dicembre 2020 per i concessionari autostradali ed entro il 31 dicembre 2021 per gli altri concessionari.

La previsione, che non ha effetto retroattivo, si applica, dunque, in modo generalizzato a tutti gli affidatari diretti di concessioni di importo superiore alla soglia indicata, non distinguendo a seconda dell’oggetto o del regime temporale o del settore di operatività.

Nella pronuncia in nota il Consiglio di Stato, dopo aver ricordato come l’obbligo in questione non costituisca attuazione delle direttive, ma sia stato introdotto dal legislatore interno “in una logica che può dirsi riequilibratrice e non sanzionatoria” di una situazione concorrenziale mancata a monte, ritiene che la norma contrasti, tuttavia, con i principi costituzionali della libertà d’impresa, di uguaglianza sostanziale e del buon andamento.

Con riferimento al primo aspetto, vale a dire il contrasto con l’art.41 Cost., si legge nella sentenza che, seppure l’intento legislativo sia stato quello di “restituire” al mercato quote di contratti allo stesso sottratte, adeguando, in via mediata e diretta l’originario rapporto concessorio alla concorrenza per il mercato, “purgando quello stato di involontaria colpa originaria in capo al concessionario” (cfr. Cons. St., Comm. Spec., cit.), secondo il giudice remittente sono state, però, disconosciute le contrapposte esigenze di tutela della libertà di impresa e di mantenimento della funzionalità della concessione.

Sul punto, si rileva come, nel parere reso sullo schema di linee guida, il giudice amministrativo avesse già espresso il dubbio che l’obbligo di esternalizzare, per raggiungere la quota dell’ottanta per cento, anche le attività che il concessionario potrebbe eseguire avvalendosi della propria organizzazione aziendale potesse contraddire i principi scaturenti dall’art. 41 Cost. .

Ciò tanto più in considerazione del fatto che il rapporto concessorio all’epoca si è legittimamente costituito “al riparo della competizione”, atteso il regime giuridico del previgente codice degli appalti, il d.lgs. 163/2006.

Come chiarito ancora nel parere sullo schema di linee guida, l’art.177  sviluppa ulteriormente quanto già in essere per i concessionari stradali, ai sensi della disposizione transitoria contenuta nel comma 25 dell’art.253 del previgente codice dei contratti pubblici, perseguendo, si aggiunge, la ratio sottesa, altresì,  all’art.146 di detto codice.

Sul punto si osserva che, se è vero che tutte le norme citate, ivi incluso l’art.177, c.1, “manifestano la preoccupazione del legislatore che, nelle concessioni di lavori, si determini una sorta di monopolio della domanda in grado di alterare la concorrenza e di aumentare i costi per la gestione della concorrenza stessa, traslandoli, poi, sugli utenti e i contribuenti, atteso il necessario rispetto del principio del mantenimento dell’equilibrio economico finanziario”, diverso è, però, il tenore dispositivo contenuto nell’attuale codice dei contratti e, ciò, si aggiunge, per più ragioni.

In effetti, contrariamente all’art.146 d.lgs. 163/2006, che prevedeva la facoltà per la stazione appaltante di imporre al concessionario, figurandolo nel bando di gara - dunque, prima della costituzione del rapporto - di affidare a terzi una percentuale minima del trenta per cento dei lavori oggetto di concessione, l’art.177 interviene – peraltro, in modo più incisivo - a valle del rapporto.

La norma vigente, infatti, imponendo, peraltro, un obbligo (e non una facoltà) in capo a tutti i concessionari (non solo, quindi, a quelli di lavori), interviene sul rapporto pregresso, in corso di gestione, alterando in modo pressoché totalizzante le iniziali condizioni.

Diverso (se non per la ratio) è, però, anche  il tenore della disposizione transitoria contenuta nell’art.235, c.25, d.lgs. 163/2006, secondo cui i titolari delle concessioni autostradali, già assentite al 30 giugno 2002, comprese quelle rinnovate o prorogate, sono tenute ad affidare a terzi una percentuale minima del trenta per cento dei lavori e ciò, in questo caso (come per l’art.146), oltre che per la percentuale inferiore di esternalizzazione imposta, per la limitazione dell’ambito (qui) soggettivo di applicazione.

Nella pronuncia in nota il Consiglio di Stato, riprendendo quanto già affermato nel parere reso sullo schema di linee guida, evidenzia come l’applicazione dell’obbligo di esternalizzare riferita all’intera concessione, sia suscettibile di comportare uno stravolgimento degli equilibri economico finanziari, su cui si fondano le scelte di pianificazione ed operative del concessionario imprenditore, “riducendo” lo stesso al ruolo di mera stazione appaltante, in contrasto con l’art.41 Cost..

Ciò, per il giudice remittente, appare, inoltre, foriero di una disgregazione del compendio aziendale e del conseguente depauperamento del patrimonio di conoscenze professionali del concessionario, “a danno” dell’interesse pubblico all’attuazione della concessione.

Peraltro, aggiunge il supremo consesso, una siffatta portata dell’obbligo dismissivo, venendo ad insistere su una situazione giuridico soggettiva legittimante costituitasi all’epoca, sembra eccedere i limiti, pur ampi, della discrezionalità legislativa, contrastando, sotto il profilo della ragionevolezza, con il secondo comma dell’art. 3 Cost..

La scelta legislativa, cioè, appare non equilibrata rispetto alle contrapposte ed altrettanto legittime aspettative dei concessionari di proseguire l’attività economica in corso di svolgimento e di mantenere le conoscenze e professionalità acquisite.

Il contrasto costituzionale con l’art.3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza è ravvisato e, diremmo, reso più evidente con riferimento alla generalità della previsione impositiva, la quale si estende indistintamente  a tutti i concessionari diretti, senza distinguere quanto a dimensioni della struttura imprenditoriale, oggetto, importanza del settore strategico, valore economico o durata della concessione.

Le medesime considerazioni, aggiunge, infine, il Consiglio di Stato, supportano il giudizio di non manifesta infondatezza delle norme in relazione all’art.97, c.2, Cost.,  e al principio di buon andamento. Ciò in quanto, sia la norma delegante, che quella delegata, non tenendo in considerazione gli effetti della dismissione sull’efficiente svolgimento dei servizi pubblici essenziali, oggetto della concessione, disconoscono le possibili ricadute sull’utenza e quindi, sul buon andamento dell’azione amministrativa.

Quindi, le eccezioni di incostituzionalità poggiano, potremmo dire, su tre basi, una interna al rapporto concessorio, mentre la seconda e la terza investono “l’esterno” dello stesso.

In effetti, la prima eccezione, quella relativa all’art.41 Cost., “guarda” agli effetti che la norma interna viene a produrre sul rapporto concessorio e, quindi, al pregiudizio arrecato, in uno con la libertà d’impresa, al patrimonio dell’operatore economico, anche nella prospettiva futura, vale a dire, al suo legittimo affidamento a proseguire la gestione della concessione alle condizioni stabilite al momento della sua costituzione.

La seconda e la terza eccezione investono, invece, potremmo dire, il mercato, nella duplice prospettiva inerente, da un lato, il rapporto tra gli operatori, dall’altro, quello tra operatori e utenza.

La pronuncia è interessante in quanto il giudice amministrativo affronta, con la “lente” del sistema costituzionale e con riferimento ai limiti di discrezionalità del legislatore, i tre “fronti”  dell’attuale tutela giuridica, così come si è venuta a delineare anche grazie alla rivisitazione, ad opera della giurisprudenza, dei propri orientamenti (cfr., Cons. Stato, II, n.7246/2019; Ad. Pl.n.5/2018; SSUU, n.8236/2020).

Quanto all’aspetto interno del rapporto, l’art.177, comportando uno stravolgimento degli equilibri economico finanziari della concessione, sulla cui base l’operatore economico ha formato il convincimento di addivenire alla costituzione del rapporto ed ha effettuato le scelte di pianificazione, viene a compromettere le sue  legittime aspettative a trarne le utilità prospettate (di tal che potrebbe ritenersi  che la norma contraddica anche l’art.2 Cost., risultando violato quel dovere di protezione che caratterizza i rapporti qualificati).

Legittime aspettative che, secondo il giudice remittente, non appaiono, né irragionevoli, né tanto meno colpevoli, tenuto conto della conformità del titolo all’ordinamento all’epoca vigente.

Dal “lato esterno” la norma pare suscettibile di “viziare”, invece, il mercato, nella duplice prospettiva, di chi opera, vale a dire, i concessionari, e di usufruisce dell’operato di questi, cioè gli utenti.

E ciò in quanto l’art.177, determinando una sperequazione tra gli operatori, non tiene in alcuna considerazione gli effetti che l’obbligo dismissivo viene a determinare sull’efficiente gestione dei servizi pubblici essenziali.

Infine, la pronuncia in nota va segnalata con riferimento alla valenza immediatamente lesiva riconosciuta a tutte le indicazioni contenute nelle linee guida dell’Anac.

Secondo il giudice amministrativo, sebbene le linee guida sia articolate in due parti, una delle quali di natura dichiaratamente interpretativa (la parte I) e la seconda dichiaratamente vincolante (la parte II) , nel complesso esse costituiscono un unico corpo regolatorio impugnabile nel suo complesso.

Interessante è anche la motivazione sul punto, in quanto il Consiglio di Stato giunge a tale conclusione, non tanto perché le indicazioni interpretative vincolino la successiva attività amministrativa, quanto in ragione della natura conformativa che assumono nei confronti degli operatori, i quali sono posti “di fronte all’alternativa tra l’adeguarsi ad esse o subirne le conseguenze a mezzo del successivo provvedimento applicativo della penale”.

 

 

 

Sentenza: Consiglio di Stato, Sez. V, 19/8/2020 n. 5097
Il Consiglio di Stato solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, c. 1, lett. iii) l. 11/2016 e 177, c.1, del codice dei contratti

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